Caro Presidente,
Lei di recente ha usato queste parole, ricordando i magistrati vittime del terrorismo, prima di commuoversi:
«In questo giorno della memoria che è entrato ormai nel nostro cuore».
La sua è stata commozione autentica, spontanea, sincera. Forse è un moto venuto anche per reazione alle terribili polemiche dei giorni precedenti, ai manifesti ignobili che paragonavano i magistrati alle Brigate Rosse; a quei segnali nel dibattito pubblico e nella campagna elettorale che hanno inequivocabilmente testimoniato la rottura di un argine, oltre il quale la comunicazione politica e l’informazione sono slittate nella propaganda della peggior specie. Questa almeno è l’impressione che è arrivata al di là dello schermo, circa la sua commozione. Speriamo di non sembrarle presuntuosi: se anzi vorrà correggere questa nostra impressione, accoglieremo volentieri le sue parole.
Ma c’è un aspetto oggettivo che certo non vive di impressioni. Quelle parole che l’hanno toccata, “memoria” e “cuore”, vivono in un’altra parola che le racchiude entrambe, come un mare in cui affluiscono due fiumi, nutrendolo.
Questa parola è coraggio: è una parola che trae il proprio significato e la propria forza dal cuore (e dunque dalle emozioni), e dal ricordare, (e dunque dal recupero del tempo che trascorre, dal senso della storia). Lei una volta, per la precisione l’8 marzo dello scorso anno, ha detto che
«una democrazia rispettabile è il luogo nel quale per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio»,
frase su cui ci sarebbe forse da discutere, perché un cittadino, una comunità e un popolo difficilmente possono fare a meno delle emozioni, per non dire della memoria e del senso di continuità storica. Ma citiamo questa sua dichiarazione perché domenica scorsa, ricevendo il premio Dan David per la categoria “passato”, ha parlato proprio di democrazia e del ruolo che Lei, in qualità di Presidente, ha nei confronti della Repubblica italiana:
«Mi compete di certo di operare come presidente della Repubblica italiana per il consolidamento della democrazia riconquistata nel mio paese»
Ecco, quest’ultime elezioni hanno visto una grande e positiva partecipazione dei cittadini, al di là dei risultati, ed è stata sicuramente una prova di democrazia, tanto più dove ha dimostrato di reggere a quei tentativi di slittamento feroce operati dalla propaganda. Ma questa partecipazione ha avuto un senso anche perché la legge con cui si vota per le amministrative non svuota, di fatto, l’esercizio della sovranità popolare, trasformando il voto in una delega in bianco, senza conoscere neanche il nome dell’eletto cui sarà data questa delega; cosa che, invece, avviene purtroppo per le elezioni politiche. Un simile giudizio è avvalorato da chi, firmando quella legge, l’attuale Ministro Calderoli, per primo la definì “una bella porcata”, tanto che la legge elettorale oggi è spesso indicata con questo nome, “porcellum”. E, da cittadini, le assicuriamo che sentire un proprio diritto svilito, di fatto, a porcata, non è una sensazione piacevole, soprattutto in una fase del paese di così grave crisi. Sa di umiliazione, sa di beffa, sa di impotenza civica imposta come un vicolo cieco.
Ecco, noi vorremmo perciò chiederle niente altro che un po’ di “cuore” e un po’ di “memoria”. Le chiediamo di compiere quel piccolo passo di cui ha parlato di fronte al premio Nobel Shimon Peres: di fare sua, come garante di una Costituzione che quasi giornalmente viene attaccata come strumento di trattativa politica, l’istanza di una nuova legge elettorale, che torni a rendere la competizione politica un confronto tra persone condotto di fronte ai cittadini, e non nei corridoi di Palazzo (o dei Palazzi), dove chi si candida deve rispondere in primo luogo al proprio collegio elettorale, e solo in seguito al proprio segretario di partito. Perché se non si inverte la tendenza di questo accentramento nell’amministrazione della Repubblica, il voto, così com’è disciplinato dall’attuale legge, può solo essere la ratifica di quanto deciso altrove.
Vorremmo che, in qualità di garante della Costituzione, scongiuri quanto scritto da uno dei suoi padri, Ignazio Silone, che nel 1938, nello stesso anno in cui Vittorio Emanuele III, firmando le leggi razziali volute da Mussolini, consegnava l’Italia ad una delle sue pagine più vergognose, dichiarava ne La scuola dei dittatori:
Nei tempi moderni la morte di una democrazia è più spesso un suicidio camuffato. La sua linfa vitale un regime di libertà dovrebbe riceverla dall’autogoverno delle istituzioni locali. Dove invece la democrazia, spinta da alcune sue tendenze deteriori, soffoca tali autonomie, non fa che divorare se stessa. Se nella fabbrica regna l’arbitrio padronale, nel sindacato la burocrazia, nel comune e nella provincia il rappresentante del potere centrale, nelle sezioni locali dei movimenti politici il fiduciario del capo del partito, lì non si può più parlare di democrazia.
Presidente, ci aiuti a tenere viva la nostra democrazia!
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