La salute di una democrazia passa per il valore del dovere e l’amore per il lavoro, che insieme fanno il senso dello Stato.
Da piccola, a tavola, mi lamentavo per l’ennesimo no a qualcosa visto addosso alla compagnetta , figlia di un avvocato. “Ecco! Perché tu sei solo un maestro!” “Non ti rischiare mai più, tuo padre guadagna di meno, ma serve lo Stato”. E infatti si chiama pubblico “servizio”. Qualcuno di voi sorriderà per il sapore antico, trapassato remoto, di questo racconto. Io invece, che ci sono cresciuta, ci ho creduto così tanto da “servirlo” a mia volta, lo Stato, e da ripetere la stessa frase con identiche convinzione e soddisfazione. Sono cresciuta in una famiglia sana e felice di impiegati statali, non la famiglia del Mulino Bianco, bensì quella dei sacrifici perenni ma coi sonni tranquilli della gente perbene, lavoratori del pubblico. Qualcuno di voi starà sorridendo nuovamente, qualcun altro invece sentirà familiare il senso di appartenenza e di partecipazione a qualcosa di importante.
Chissà se queste parole arriveranno al vigile del fuoco, quello che si butta tra le fiamme e supera le polemiche dell’aver avuto un Bertolaso a guidarlo,offendendone il valore, come io faccio di tutto per dimenticare di avere per ministro la Gelmini. O all’infermiera che ebbe un alterco proprio con l’ anziano maestro in pensione, un po’ rompipalle, che voleva accorresse subito quando lei da sola doveva “servire” un intero piano di malati. Perché i tagli hanno raggiunto anche le corsie degli ospedali. “Papà, guarda che lo Stato lo serve anche lei, cerca di essere un po’ paziente”. O se prenderà in mano L’Unità oggi il ferroviere che mi timbra il biglietto sul trenino tra Fiumicino e Termini, rimproverandomi perché lo annullo sempre con la penna, arrivando di corsa “Ma lei è siciliana?Che bella terra..” “Si, sono un ‘insegnante” “Allora deve stare più attenta” detto con familiarità, perché anche lui serve lo stesso Stato. E poi c’è la mia amica Carmen, che fa la psichiatra in corsie sempre più difficili, i turni di notte “tra i miei mattarelli”, riposa pochissimo in una brandina e si porta pure lei la carta igienica da casa, “ma dai, anche voi?” e le vedo illuminarsi gli occhi, a lei, che non fa visite private, “non lo faccio per soldi questo mestiere”. Per dire che sì, i soldi fanno comodo, chi lo nega?
Ma c’è dell’altro, per noi che guadagniamo sempre meno: c’è il valore del dovere, l’amore per il lavoro, in una parola “il senso dello Stato”. No, non siamo scemi, anche se è un valore che ci riempie il cuore a molti di noi, ma non la testa. Perché tutto potrebbe essere più civile, senza lotte di religione “contro i fannulloni di turno”, semplicemente se fosse meglio organizzato. Come là dove si è capito che il welfare statale, e lavoratori annessi, ha il valore che gli spetta in una scala di priorità sociali. E cioè altissimo. Non per chissà quale sovrumana, ingiusta, privilegiata ragione, non per eroismi carichi di sacrifici personali, ma solo perché aiuta a vivere meglio, se si coniugano parole come solidarietà ed efficienza, sussidiarietà tra pubblico e privato, senso dello Stato con valore del vivere sociale.
Lavorare per lo Stato dovrebbe avere i caratteri “laici” del lavoro ben fatto e ben organizzato, essere garanzia per ogni cittadino e non una condanna visualizzata dalle “file” o dalle “attese”, in modo da avere minori sacrifici eroici individuali, meno Carmen, meno vigili del fuoco stravolti, meno maestri che non riescono a regalare una vacanza studio all’estero ai figli, meno anche “furbi”, sia chiaro, a vantaggio di una qualità generale più alta del servizio offerto e di una fiducia maggiore nel valore del vivere insieme. Cosa ci vuole? Volontà condivisa, educazione, istruzione e molta, molta, buona politica.
Mila Spicola (L’Unità, 8 ottobre 2011)