Dopo la sentenza della Corte, il vero problema di una nuova legge elettorale è che la devono fare i partiti per “rifare” i partiti. Con una coincidenza perfetta, le stupefacenti vicende all’interno della Lega sono state l’ultima dimostrazione per tutti, senza sconti per nessuno, che la questione non è solo di meccanismi elettivi. È anche la questione delle condizioni di democrazia elettorale in cui si trovano i nostri partiti, prima e dopo le elezioni.
Le due questioni sono strettamente connesse. Perché una legge elettorale fortemente limitativa delle scelte degli elettori è anche una legge che favorisce le oligarchie dei partiti, cioè la situazione antidemocratica che vede “pochi” con il potere di determinare le candidature di tutti. Così come regole di comunicazione mediatica che favoriscono situazioni di privilegio o di dominio nei canali di formazione del consenso elettorale feriscono la libera concorrenza, il “concorso” tra i partiti, che è elemento essenziale nella idea costituzionale di pluralismo politico.
Già, l’idea costituzionale. L’art.49 della Costituzione concepisce ed inserisce il diritto di associarsi in partiti nel sistema delle libertà. E lo lega strettamente al “metodo democratico”, come condizione di quella libertà . La storia repubblicana ha invece tradito questa idea costituzionale.
I partiti, fin dall’origine (nel, per tanti versi, glorioso Comitato di Liberazione Nazionale) sono stati considerati come istituzioni dello Stato. Spostati dunque dal sistema delle libertà e inseriti nella dimensione pubblica, hanno goduto di tutti i privilegi della statualità senza averne gli oneri: dagli arcana imperii di statuti inaccessibili ai giudici, al finanziamento pubblico senza controlli di magistrati contabili, al potere di presentare le candidature senza sentire i propri iscritti.
Questa radicata istituzionalità dei partiti, senza democrazia interna, con la sola libertà per gli iscritti di aderire o andarsene (cioè il contrario dell´associazionismo che è vita vissuta assieme) ha finito con il provocare l’assurdo attuale della “partitocrazia senza partiti”.
Della forma partito ha resistito cioè il guscio duro burocratico, una nomenclatura di vertice, il caucus di segretari alla testa di organizzazioni che hanno presenza quasi soltanto simbolica nella società. Ma leader che conservano tuttavia forza effettiva sui gruppi parlamentari, tenuti assieme dal potere di candidatura.
Ecco perché la questione della legge elettorale si connette strettamente alla qualità dei partiti. Si deve scegliere una legge avendo in testa un modo nuovo di organizzare la democrazia fondata non su strutture amministrative ma su associazioni di libertà. E anche qui, come in tutto quello che c’è da fare nell’ordinamento costituzionale istituzionale, si deve partire dalla cultura delle garanzie. Il partito che si garantiva da se stesso, come parte fondativa elementare del sistema democratico ha perso la sua ragione d’essere.
Occorre che la libertà d’associarsi in partiti sia garantita contro le degenerazioni del potere democratico sia dentro sia fuori della forma partito sia nelle sue proiezioni parlamentari. Questo significa garanzie processuali, con magistrati super partes, per l’ordinamento interno dei partiti, per la correttezza della gestione del finanziamento pubblico, per la procedura di selezione dei candidati a cariche pubbliche. E garanzie di neutralità che si estendano anche in Parlamento: per privilegi e prerogative ormai fuori dal tempo e dal diritto.
L’autonomia parlamentare rimane sacra e intangibile in tutto quello che riguarda la operatività delle funzioni delle Camere. Ma deve continuare ad esprimersi anche affidando alle maggioranze di parte il giudizio su chi ha avuto più voti alle elezioni o sulle incompatibilità e le ineleggibilità sopravvenute? Oppure sottraendo alle verifiche della Corte dei conti persino le gare di appalto per la manutenzione dei fabbricati e i contratti di forniture? Vi è tutta una zona oscurata al diritto e ai suoi giudici e ancora coperta da una vecchia giurisprudenza, priva di misura, della Corte costituzionale.
Restituire spazio alle normali garanzie giuridiche toglierebbe molti argomenti ad una forsennata ondata antiparlamentare e antipolitica. Tanto più è necessario questo recupero delle radici costituzionali quanto più grave è il deperimento dell’associazionismo nelle società contemporanee. Occorre perciò che la forma partito non faccia “Stato a sé” ma che sia attenta e accogliente rispetto ai nuovi coaguli politici e sociali: nella “rete”, ovviamente, con tutte le avvertenze del caso, ma anche nei gruppi di mobilitazione su singoli temi, nelle proposte e proteste collettive, nei movimenti che sembrano marginali solo perché sono all´avanguardia nella intelligenza delle cose.
Intorno a noi sono in gioco tutte le idee che avevano nutrito concordanze e divisioni degli ultimi due secoli. La tensione tra campo pubblico e libertà private. Il concetto di bene comune. Le formule e la pratica delle uguaglianze. I confini del bene e del male biologici. I nuovi diritti soggettivi e le rotture delle vecchie certezze giuridiche. Le limitazioni delle sovranità nazionali e la sostenibilità dei poteri sovranazionali. La crisi strutturale tra mercati e politica.
Di fronte a tutta questa richiesta di idee e di posizioni che diano senso alle cose e speranze alla gente, i partiti hanno bisogno di rinsanguarsi come associazioni di dialogo e di progetti nella libertà. Devono cambiare insomma tutto rispetto alle loro attuali deformazioni burocratiche, personalistiche, patrimoniali, alla loro chiusura nelle mani di pochi.
La Corte costituzionale con la sua sentenza si è preoccupata, ragionevolmente, di non creare un vuoto tecnico-giuridico di legislazione. Ma il fatto è che il vuoto c’è già: etico-politico. Non solo perché l’attuale legge elettorale ha un deficit di credibilità così alto da togliere legittimazione a qualsiasi guida politica che si basi su di essa, ma anche perché, terminato il ciclo della “Repubblica dei partiti”, non siamo riusciti a creare nuove forme di aggregazione e di consolidamento sociale che diano garanzie di cultura politica e di metodo democratico, come vuole la Costituzione. È quel che si deve fare.
Andrea Manzella - La Repubblica, 24 gennaio 2012